Il 2020, ormai lo sanno anche i sassi, non è stato un anno facile. E, così, ad una primavera segnata dalle restrizioni e dai drammi legati alla pandemia è seguita un’estate molto differente dalle precedenti. Innanzitutto, un’estate eccezionalmente calda e siccitosa. Ma, soprattutto, un’estate in cui si è andata ricercando quella libertà tanto agognata durante il lockdown, per la quale, in molti hanno scelto la montagna. La voglia di aria pulita, ampi spazi e, forse, di un po’ più di solitudine ha spinto centinaia di migliaia di persone a preferire le zone interne rispetto al mare per la propria villeggiatura.
Vivendo tutto l’anno in una cittadina, Pescasseroli, cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise e di per sé ambita meta turistica, ho potuto assistere da vicino all’evolversi di questa stagione d’eccezione. Dopo la desolazione della quarantena, il piccolo centro abitato si è nuovamente riempito di vita, prima timidamente, poi con un’escalation esponenziale delle presenze, che in poche settimane hanno affollato sia i vicoli del paese che i sentieri escursionistici dei pendii e delle valli circostanti.
Ovvio che questo ha comportato dei problemi a chi, come me, pur non essendo un misantropo, non ama le folle e preferisce vivere le esperienze in montagna in solitudine, avanzando con il proprio ritmo e i propri pensieri. Inoltre, è anche la mia professione di fotografo naturalista ad impormi spesso una condotta solitaria per garantire quel silenzio e quell’attenzione richiesti dall’osservazione e dall’avvicinamento alla fauna selvatica.
I miei soggetti preferiti, come orsi e lupi, sono infatti animali rari, schivi e molto sensibili. Per riuscire ad avvicinarli e fotografarli in modo continuativo occorrono esperienza, determinazione e cautela, oltre che rispetto e la solita buona dose di… fortuna.
Gran parte del mio lavoro quindi si svolge pianificando a tavolino le uscite e scegliendo con cura le zone da esplorare, in base ad esperienza e conoscenza dei soggetti. Una volta sul campo, cerco di muovermi con molta attenzione per non tralasciare alcun segno di presenza, né rischiare di disturbare gli animali durante l’avvicinamento. Per questo, lo strumento più importante nel mio lavoro; la prima cosa in assoluto che metto nel (sempre troppo pesante!) zaino è il binocolo.
Da oltre trent’anni questo è stato il mio compagno d’avventure durante le osservazioni più preziose e la chiave di accesso a molti degli incontri più emozionanti. Osservando pazientemente gli animali prima di avvicinarmi, infatti, ho potuto comprenderne e anticiparne il comportamento e scegliere le mosse successive per riuscire ad arrivare alla distanza giusta per fotografarli. E spesso le scene a cui ho potuto assistere attraverso le lenti del binocolo hanno addirittura superato le fotografie che sono riuscito a realizzare. Questo archivio di bellezza ed emozioni è gelosamente preservato nella mia memoria e, in fondo, rimane la vera ricompensa di tutto il tempo passato sul campo.
Rispetto agli anni precedenti, questa strana stagione “nell’era del Covid” ha un po’ stravolto i miei punti di riferimento. Diverse delle mie zone preferite, abitualmente frequentate dagli animali in estate, sono divenute molto popolari anche tra gli escursionisti e ciò, assieme alle temperature elevate, ha modificato l’attività della fauna, rendendola completamente crepuscolare o spingendola nelle aree più remote e poco battute. Una di queste si trova ai limiti settentrionali del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise: un lungo e ampio crinale erboso lambito dalla foresta, che attraversa diversi tipi di ambienti e fasce di vegetazione, ma è aperto a sufficienza per avere un grande campo visivo e godere di buona luce anche alla sera.
Per chissà quale ispirazione, dopo l’ennesima frustrante uscita a vuoto nei “soliti posti”, ho deciso di andarmene lassù, sicuro che non vi avrei trovato nessuno e speranzoso che qualche animale avrebbe potuto attraversare le radure dopo il tramonto, quando l’aria si faceva più fresca.
Lasciata l’auto, i primi metri in salita, sotto al sole ancora impietoso nonostante fosse il tardo pomeriggio, sono stati tremendi. Circondato da mosche e tafani, col sudore che scendeva copioso sul viso mi sono chiesto se procedere o rinunciare. Appena entrato nella faggeta, però, la frescura dell’ombra ha dissolto ogni dubbio. Passo dopo passo, ho raggiunto il limite degli alberi, dove ho aspettato qualche minuto prima di uscire allo scoperto, per montare l’attrezzatura fotografica e controllare con il binocolo che non ci fosse alcun animale al pascolo.
In cresta si stava benissimo: una lieve brezza dissipava il calore dei raggi solari, agitando le erbe ingiallite. Un’aquila reale, comparsa all’improvviso dal fondovalle, probabilmente doveva pensare la stessa cosa mentre volteggiava a strette spire risalendo una corrente termica. Nonostante la nuca già chiara, le chiazze bianche ancora presenti sulle remiganti e la banda sulla coda rivelavano che si trattava di un subadulto. Mi è passata praticamente accanto, scivolando rapidamente con una lunga planata, mentre teneva la testa volta nella mia direzione e gli occhi gialli fissi su quel bipede che l’ammirava attonito attraverso le lenti del binocolo. In un attimo, aveva raggiunto un’altra montagna, riguadagnando quota sotto un pallido spicchio di luna. Non male come inizio!
Proseguendo sul lungo crinale, grosse pietre bianche ribaltate ai lati del sentiero tradivano il recente passaggio di un orso a caccia di formiche. Nonostante la fama di predatore, l’orso bruno in realtà è un onnivoro, quasi prettamente vegetariano con una predilezione estiva per le larve di formiche e altri imenotteri. Solo una cinquantina di esemplari di orso bruno marsicano ancora popolano i monti dell’Appennino centrale e incontrarne i segni di presenza è ogni volta una forte emozione.
Con la testa persa nei miei pensieri, non mi sono accorto del grosso cervo maschio che pascolava in una piccola valletta erbosa. Quando l’ho visto e mi sono acquattato era già troppo tardi: l’animale mi fissava nervoso, pronto a scappare. Giusto il tempo di ammirare i grandi palchi, da cui pendevano brandelli di velluto, e scattare una foto, attraverso i fili d’erba.
Ho proseguito ancora qualche centinaio di metri, decidendo di sedermi sotto un albero dove avrei atteso, immobile e in silenzio, l’arrivo della sera. Davanti alla mia posizione lunghi steli di erba delle fate, la Stipa, ballavano al vento in uno splendido controluce. Sullo sfondo, catene di montagne in lontananza si tingevano di azzurro. Da un alberello alla mia sinistra proveniva il canto di un prispolone.
Nel binocolo potevo ammirarne la stria malare chiara, l’interno del becco arancio e il petto e la gola coperti di punti marroni, come gocce di cioccolato. Dopo un attimo, l’uccellino si è lanciato in aria, salendo di qualche decina di metri, per poi tuffarsi in un volo a paracadute, con le ali e la coda alzate a rallentarne la discesa: l’avvincente display territoriale di questa piccola specie.
Nonostante la struggente bellezza di quel lungo tramonto, cercavo di non distrarmi, continuando ad osservare con attenzione i dintorni e controllando con il binocolo il limite della foresta e anche le radure più lontane. Passavano i minuti e il sole stava toccando l’orizzonte, quando un capriolo ha iniziato ad “abbaiare”, allarmato, dal bosco a due-trecento metri di distanza. Allora ho notato una macchiolina grigia che si muoveva tra i ginepri, spostandosi rapida nella mia direzione. Ancor prima di inquadrarla nel binocolo, dal passo elegante e flessuoso ho capito che si trattava di un lupo. Trattenendo il respiro e l’emozione, ho subito iniziato a scattare qualche foto, senza eccedere con le raffiche per non far percepire all’animale il rumore dell’otturatore.
Il lupo ha attraversato una piccola pietraia e si è infilato in una valletta sotto la mia posizione.
Poco prima di rientrare nel bosco, è passato in un punto ancora illuminato dal sole, regalandomi un paio di buoni scatti.
Appagato da quella rara, seppur breve, osservazione, mi sono rilassato un poco, godendomi i colori del crepuscolo e l’aria che andava rinfrescando. Prima che facesse buio, ho deciso di alzarmi dall’appostamento e andare a controllare un pendio poco lontano, che mi era nascosto alla vista da una striscia di faggi. Non avevo fatto ancora in tempo a superare gli alberi, quando ho udito chiaramente il rumore di pietre che rotolavano. Puntando il binocolo nella direzione da cui proveniva il suono dapprima non ho visto nulla. Poi, da dietro un grosso masso è uscita una sagoma scura.
Il garrese pronunciato, l’incedere risoluto e la grossa testa rotonda: un orso. A chi potevo raccontarlo!? Non riuscivo a credere ad una tale fortuna, ma si sa, a volte la realtà supera la fantasia.
Ho scattato qualche immagine ambientata, finché la luce lo consentiva. Poi ho messo giù la fotocamera, continuando ad osservare col binocolo l’orso che risaliva il pendio alla ricerca di formiche. L’ho seguito finché non si è fatto troppo buio ed è arrivato il momento di riprendere la via del ritorno. All’orizzonte resisteva un bagliore azzurro, in cielo iniziavano a brillare la luna e le stelle, mentre i grilli frinivano tutto intorno, come celebrando la fine di una delle serate più incredibili della mia vita.
Bruno D’Amicis http://www.brunodamicis.com